Sake, la guida completa: un viaggio in Oriente

Per definizione, il sake è una bevanda alcolica di origini giapponesi che risale a ben 2.500 anni fa, quando la coltivazione del riso divenne predominante nella cultura nipponica. Il sake, pertanto, si ricava dal processo fermentativo di questo cereale e raggiunge una gradazione alcolica che varia dai 13 ai 16%.
Più in particolare, al riso viene aggiunta l’acqua (freschissima, pura, povera di ferro e manganese, ma ricca di magnesio, calcio, fosfati e potassio), un microrganismo chiamato Koji e lievito.


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Storia e origini

Nara (奈良市) è il luogo di origine del sake. Ci troviamo nel capoluogo dell’omonima prefettura sull’isola di Honshu, ad un’ora circa di treno da Osaka e Tokyo ed un tempo capoluogo del Giappone, più precisamente nel 710. Nara è impregnata di tradizioni e storia, ricca di templi come quello di Bodaisen Shoryakuji, dove si tramanda sia stata perfezionata la tecnica di produzione del sake, l’antichissima bodai-moto (dal nome del tempio):
“prevede che il riso crudo, insieme a una piccola quantità di riso cotto al vapore, sia immerso e lasciato in ammollo in acqua fredda. Si sviluppano così batteri che producno acido lattico, usato poi per fare il moromi, la base lievitante, successivamente, per prevenire il decadimento del prodotto,  venne inventata la tecnica del riscaldamento, che è alla base delle tecnologiche di fermentazione moderne, come quella di Pasteur in Francia, almeno 400 anni dopo”.[1]Parlare di origini del sake significa fare un salto nei periodi storici che hanno contraddistinto la cultura giapponese, così come il vino ha accompagnato simposi in eventi politici, anche questa bevanda ha influenzato e contaminato l’avanzar della contestualizzazione storico/sociale.
Di seguito una piccola infarinatura dei periodi storici nipponici per potere capire l’evoleversi del sake:

  • Periodo Yamato nell’epoca Kofun-Asuka (250-700 d.C): il primo riconoscimento del sake come “bevanda degli dei”. Infatti, è in questo momento storico che si tramanda la tradizione del “sake da masticare”, ovvero della tecnica del Kuchikami no sake. In determinate circostanze, le sacerdotesse preparavano un sake particolarmente legato agli dei:masticavano il riso per poi letteralmente sputarlo in un recipiente e lasciato riposare al buio. In questa fase gli enzimi della saliva convertivano l’amido in glucosio fermentescibile. Il sake era infine offerto agli dei e servito alla corte imperiale.
    Ai più appassionati non sarà mancato il riferimento alla cinematografia con il film Your Name, Kimi no na wa (2016) del regista Makoto che ha squisitamente riportato sul grande schermo questa antica ma affascinante cerimonia.
  • Periodo Nara (710-794 d.C): già citato poche battute sopra come periodo di sviluppo e utilizzo del Koji, lievito o muffa di riso, e diffusione a livello nazionale, aggiungiamo una prima differenziazione della nomenclatura suddivisa per tipologia.
  • Periodo Heian (794-1185 d.C): comincia ad essere nota la letteratura sul sake attraverso la redazione dell’Engishiki in cui vengono illustrati le metodologie di produzione e gli ingredienti utilizzati, riso, koji e acqua. Si comincia anche a parlare di “sake caldo”, il kan-zake. Quindi attenzione, non è prassi bere il sake caldo come digestivo a fine pasto!
  • Periodo Kamakura-Muromachi (1185-1573): se sino ad ora il sake si caratterizzava come prodotto esclusivo per celebrazionioni sacre e corti imperiali, con lo sviluppo delle città e di conseguenza del commercio, il sake diviene un bene di consumo con un prezzo sul mercato sostenibile ed un costo pari a quello del riso.
    Altro elemento fondamentale di questo periodo è la diffusione della tecnica della fermentazione parallela, utilizzata esclusivamente per il sake, tra le bevande alcoliche fermentate al mondo:
    “Si tratta di un metodo di produzione sofisticato che combina saccarificazione e fermentazione per aumentare il contenuto alcolico fino al 20%. Nel periodo Muromachi in particolare si racconta di un processo di pastorizzazione chiamato hi-ire, durante il quale il sake sotto pressione viene scaldato fino a 64 gradi prima di essere imbottigliato. Questo processo di fermentazione dell’acido lattico, durante il quale i produttori aggiungevano insieme Koji, acqua e riso al vapore per creare lo shubo (lievito madre), venne scoperto molto prima che nascesse Louis Pasteur (1822-1895). Mentre il lievito cresce nello shubo, l’acido lattico inibisce la contaminazione microbica. Il calore uccide tutti i batteri e interrompe l’attività enzimatica”.[2]
  • Periodo Azuchi-Momoyama (1573-1603): il sake entra nelle case e ne viene avviata la produzione su larga scala. Inoltre, di grande rilevanza è stato il ruolo del gesuita Francesco Saverio, in missione cattolica a Kagoshima, diffuse la tecnica della distillazione che ne produsse successivamente come conseguenza la creazione del Shochu[3].
  • Periodo Edo (1603-1868): la produzione del sake viene scandita per tempistiche ben determinate in base alla stagione e che ne conferisce anche diversa importanza. In particolare, il sake di qualità superiore è il kanmaezake prodotto nel periodo prima dell’inverno.
    In questo periodo vengono affinate anche le tecniche di pastorizzazione a bassa temperatura (tra i pionieri ben prima della produzione europea) al fine di prolungare la conservazione del prodotto. Nel 1698 il Giappone conta bene 27.000 cantine di sake.
  • Periodo Meiji (1869-1912): “Nel 1909 fu creata la tipica bottilgia da 1 sho, unità di misura corrispondente a circa 1,8 litri. Grazie ai progressi della chimica, fu possibile fissare il metodo di fermentazione accelerata; di seguito venne creato l’Istituto Nazionale di Ricerca sulla Fermentazione”.[4]
  • Periodo Taisho/Showa (1912-1989): miglioramento e perfezionamento delle tecniche attraverso l’individuazione di sei lieviti per la fermentazione, progressi nelle tecniche di coltura del koji, invenzione della macchina per la raffinazione verticale del riso e utilizzo di vasche per il controllo della temperatura. Inoltre, è in questo periodo che vede il diffondersi del sake negli altri paesi come Inghilterra, Norvegia e USA.

La produzione del Sake

Come abbiamo già diverse volte accennato, gli ingredienti del sake sono il riso, l’acqua, il Koji e il lievito (in determinate tipologie anche alcol).
Ma quale riso? Quello utilizzato esclusivamente per il sake e quindi diverso da quello utilizzato per l’uso culinario si chiama shuzo kotekimai (酒造好適米) o sakamai (come la sostanziale differenza tra vitis vinifera e vitis labrusca: caratteristiche e proprietà fondamentali). Il sakamai è leggero, più grande del chicco da tavola e con un basso contenuto in proteine e ricco invece di amico internamente adatto per questo motivo alla fermentazione.
Il primo passo dopo la raccolta e lo stoccaggio e la raffinazione e levigazione attraverso macchinari atti a eliminare proteine e grassi del chicco che diversamente causerebbero un gusto decisamente sgradevole. A seconda del grado di raffinazione (seimai-buai) si avrà una diversa tipologia di sake.
Acqua: componente di almeno l’80% del sake (come l’acino d’uva a grandi linee; o meglio il sake ha l’aggiunta di acqua, così come avviene nella produzione della birra. Nel vino l’acqua è naturalmente fornita dall’uva!).
L’acqua è selezionata in base alla sua componente chimica: ricca di magnesio e potassio è fondamentale per favorire la crescita della muffa e del lievito koji ; ricca invece di ferro e metalli pesanti causano gusti sgradevoli.
“Le stesse pregiate cantine di Nara sorgono a ridosso del Monte Miwa, dal quale sgorga un’acqua purissima”.[5]

Koji: una volta raffinato e levigato, la componente essenziale del riso è il cuore ricco di amido (polisaccaride formato da una catena di glucosio, zucchero). Il Koji è un enzima naturale che viene utilizzato al fine di rompere queste catene e liberare lo zucchero, “alimento” essenziale per nutrire il lievito e far partite la fermentazione. Ma da dove arriva il Koji? Viene fatto crescere come una muffa (per cui c’è un continuo controllo della temperatura, creando nelle cantine (Sakagura)  un microclimsa adatto alla crescita della muffa) sul chicco fino a raggiungere lo zucchero. Esistono poi diverse tipologie di Koji:

  • Koji giallo: utilizzato per la fermentazione del sake.
  • Koji bianco: per la produzione del shochu (distillato)
  • Koji nero: per la produzione dell’awamori (distillato);

Lievito: nel tempo sono stati studiati diversi lieviti con una forte capacità performante al fine di far fronte alle caratteristiche del riso e del koji e alle condizioni di fermentazioni del sake (basse temperature e alto livello alcolico):

I lieviti (kobo) vengono isolati dal moromi (base per la lievitazione principale formata dall’unione di Koji e shubo). Ve ne sono di due tipi principali, i kyokai-kobo, distribuiti dal 1900 da parte della Brewing Society of Japan e i kuratsuki-kobo, prodotti dalle singole sakagura (cantina che produce sake) e quindi utilizzati unicamente per le loro produzioni”.[6]

Alcol: in alcune produzioni viene aggiunto per caratterizzarne il sapore. Il sake con aggiunta di alcol (jozo-alcohol) prende il nome di honjozo-shiu.

Termina qui la prima parte di questo viaggio nel paese del Sol Levante. Nel prossimo articolo approfondiremo la tecnica di produzione, l’abbinamento ed altre curiosità.
Fateci sapere se avete mai degustato un sake ed il vostro parere in merito.

[1] S.Viti, M. Yamada, Il Libro del Sake, Gribaudo, p.15

[2] Pag, 17

[3] “Considerata una bevanza popolare, la tradizione vuole che venga consumato come uso domestico. A differenza del sake, shochu e awamori sono distillati con un grado alcolico più alto. Inoltre, lo shochu può essere fatto con ingredienti diversi dal riso e dal lievito Koji”. Pag. 92

[4] Pag. 18.

[5] Pag. 36

[6] Ivi

Bio Autore

Elena Di Vaia

Cresciuta sulle ginocchia del nonno tra le vendemmie.
Immersa alla scoperta del vino con il papà. Sommelier Ais per forza di gravità.
"Si mens et corpus homini vino flagraret"- la mente e il corpo dell'uomo ardono per il vino, recitava Platone. Da brava discepola laureata in Filosofia ma curiosa del mondo, passeggio tra l'Economia Civile ed un Master in Etica Economia e Management.
Hobby? Comunicare e scrivere.Così vago tra ospiti e interviste nel mio format radiofonico RadioWineDesign dall'istituto Italiano di Design di Perugia.
Articolista Freelance, perchè se non chiacchiero di vino sento il bisogno di traslare le parole su carta. Il fenomeno che mi piace analizzare? La comunicazione su Instagram.
Hai mai sentito parlare del WineErasmus? Il progetto che porta il vino on the road ?!
Collaboro sulla rivista "The Design Magazine" con la mia rubrica "Wine Design".
Per sapere di più, un Simposio platonico è quello che ci vuole.

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